Bebe Vio e la meningite: "Vaccinatevi, basta bugie"

Reduce dai successi alle Paralimpiadi di Rio, la schermitrice racconta la sua quotidianità

Bebe Vio

Bebe Vio

Roma, 10 ottobre 2016 - Più forte della malattia. Beatrice Maria Vio, detta Bebe, vicentina classe 1997, a undici anni venne colpita da una meningite fulminante che le provocò un’estesa infezione. I medici furono costretti ad amputarle sia gli avambracci, sia le gambe. Non era stata vaccinata. Con l’aiuto dei suoi genitori, Bebe non ha ceduto alla disperazione. La scherma è stata la sua salvezza e allo stesso tempo lo sport che l’ha vista trionfare ai recenti Giochi paralimpici di Rio: medaglia d’oro nel fioretto individuale, bronzo nella sfida a squadre. A settembre ha posato per la fotografa Anne Geddes nella campagna pro vaccinazione anti-meningite.

La vita è un figata: Bebe Vio, lei lo dice spesso. È davvero così?

«Sì, è così. Ho una bella famiglia, vivo cose entusiasmanti, ho trasformato la mia vita, ma in bene». Ho fatto qualcosa di grande, che cosa voglio di più?».

Con lei però la vita non è stata molto gentile, vero? «Invece sì. Sono una ragazza fortunata. Con la mia malattia più del 90 per cento delle persone colpite è morta. Io sono in quel 3-4 per cento che ce l’ha fatta e quindi non posso che gioire».

Lei è stata colpita da una meningite fulminante a 11 anni. «Sì, potevo morire, ma non è stato così. Quindi continuo e lotto per quelli che ci sono rimasti secchi, dedico tutti i miei successi a quelli che non ce l’hanno fatta».

Lei non era stata vaccinata per quel tipo di meningite e ora ha aderito a una campagna per la vaccinazione. «Sì, quando me lo hanno chiesto ci ho messo zero secondi per aderire. Facciamola questa cavolo di vaccinazione e non diamo retta a chi dice che ci sono problemi. A volte anche voi giornalisti raccontate storie di questo genere, ma la verità è che la vaccinazione è determinante».

Si sente una persona coraggiosa? «Per questa campagna? Mi sento una persona determinata. Quando ho saputo che mi avrebbe fotografato Anna Geddes non ho avuto dubbi, è la mia fotografa preferita, ho perfino i cuscini impressi delle sue foto. E poi sapere di dover andare a New York è stata una spinta in più».

Come si è trovata con la Geddes? «Benissimo, come pensavo. Mi sono messa a nudo con lei ed è stata una cosa molto profonda».

Pensa che il messaggio sia passato fra la gente? «Sì, proteggete i vostri figli, una cosa diretta, limpida, pulita».

Lei non ha un rimpianto per quello che le è successo? «No, sono serena, è accaduto, quindi non bisogna guardare indietro, ma andare avanti, e il vaccino è la soluzione giusta».

Quindi pensa che questa campagna sia necessaria? «Senz’altro, quando si può fare qualcosa per gli altri è sempre giusto. E poi in fondo è solo una foto...».

Come vive fra la gente la sua disabilità? «Se a qualcuno dà fastidio una persona sulla sedia a rotelle sono problemi suoi; se qualcuno mi guarda come fossi un alieno, un mostro, rispondo con un sorriso. Succede così quando la gente è ignorante, nel senso che ignora che cosa sia la disabilità. Se la conoscesse non avrebbe questa reazione. Siamo persone che possiamo fare quasi tutto ciò che fa la gente normale».

Che cosa pensa dello spot di Checco Zalone che tratta un disabile alla stregua di una persona normale? «Sono molto d’accordo. La gente deve capire che vogliamo essere considerati come tutti gli altri, che non vogliamo la pietà, che non è quello che ci aiuta».

Recentemente a Bologna un preside ha deciso di tenere a casa gli alunni disabili perché non c’erano insegnanti di sostegno. Che cosa ne pensa? «Che ci sono disabilità diverse e per alcune non c’è bisogno del sostegno. Ci sono allievi considerati disabili che possono benissimo seguire corsi normali. Certo per gli altri è necessario un appoggio».

Con lei la scuola come si è comportata? «Bene, installarono un montacarichi per farmi salire al piano superiore con la carrozzina, avevo bisogno di quello e la scuola si attrezzò».

Torniamo a Bebe campionessa olimpica: qual è il ricordo più bello delle Paralimpiadi di Rio? «La gara a squadre».

Ma in quella ha vinto il bronzo, nell’individuale invece l’oro… «Vero, però il gruppo è ben più importante del singolo. E la cosa più bella quando si combatte e si vince è girarsi e vedere gli altri che festeggiano».

Lei ama la gente? «Sì, la vera malattia è stare da soli».

Ora punta dritta a Tokyo. «Le Paralimpiadi sono una cosa importante, vero, ma per me è più importante arrivarci divertendomi».

Lei è una scout e il suo nome è Fenice Radiosa. Si ritrova in ciò? «Nel mondo scout il nome è fatto da quello di un animale e da un aggettivo. Penso di riconoscermi in quello che mi hanno affibbiato».

Lei coltiva molte amicizie, una in particolare incuriosisce: quella con Jovanotti. Com’è nata? «Sono sempre stata una sua fan. Una volta sono stata a un suo concerto a Conegliano e siamo andati a trovarlo nel camerino. Quando mi ha visto ha cominciato a gridare: che gioia, piaccio a una persona più famosa e brava di me! Così è nata subito una bella amicizia e lui per me è solo Lorenzino e io per lui la sorellina. Ci capiamo al volo ed è tutto così bello».

Come si è sentita quando sull’aereo che la riportava a casa da Rio è arrivato il messaggio del Jova? «Eravamo tutti un po’ assonnati, il volo era già cominciato da un po’, pensavamo fosse uno di quei messaggi dell’equipaggio e invece è arrivata la voce di Lorenzo e la canzone che mi ha dedicato, ‘La tua ragazza è magica’. Un momento decisamente bello».

Ma è la sua canzone preferita? «A me piace ‘Ragazzo fortunato’, la sento davvero mia. lui comunque è il più forte di tutti».

Come ha festeggiato le medaglie di Rio? «Con uno spritz, è vero, e con una settimana di sole e mare in un’isola brasiliana dopo tante fatiche. Prima delle Paralimpiadi avevo anche dato la maturità e quindi ero davvero stanca».

E ora che progetti ha? «Il 17 ottobre comincio a lavorare nella ‘Fabrica’ di Oliviero Toscani a Villorba di Treviso. Ho un diploma in comunicazione e mi occuperò di quello nelle varie attività dell’associazione in Italia e all’estero. A 19 anni è giusto cominciare un percorso lontani da casa».

Beh, Mogliano dove lei abita e Villorba non sono poi così lontani. «Vero, ma ho deciso che andrò a stare là, in un appartamento con una ragazza inglese e un ragazzo americano. Voglio conoscere più realtà e parlare inglese anche dopo il lavoro. A volte siamo troppo legati alla famiglia e all’italiano, e io voglio crescere e continuare a volare».